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    Partecipante

    Salve Discipuli!
    Vi propongo un articolo di Luca Canali apparso oggi sul Fatto Quotidiano che ho trovato interessante e pertinente con questo forum. Ciao a tutti!

    ANTICHI BERLUSCONES: CORRUZIONE E LUSSURIA: COME ERAVAMO
    Inquietanti analogie tra quello che riferiscono gli storici sulla
    decadenza dell’impero romano e l’epoca attuale. Vita quotidiana di
    imperatori viziosi – di Luca Canali

    Basso impero e Tardo impero sono sinonimi, ma di solito “Basso
    impero” è l’espressione preferita, forse per influsso di
    quell’aggettivo “basso” che suggerisce anche l’idea di una “bassezza
    morale”, laddove essa significa semplicemente la fase decrescente di
    un soggetto storico prima in ascesa.

    In tal modo prende sempre più corpo l’idea d’una decadenza che invece
    può anche non verificarsi o essere rimandata in secoli a venire.
    Comunque lo spartiacque fra queste due fasi storiche dell’impero
    romano può essere fissato al termine della dinastia Flavia, alla fine
    del I secolo d. C (l’assassinio dell’imperatore Domiziano avviene nel
    96 d.C.) durante il quale operano scrittori di prima grandezza, come
    Giovenale, Marziale, Tacito, e il biografo Svetonio.

    E’ dopo di loro che si snoda durante quattro secoli, fra alti e bassi,
    il periodo finale dell’Impero romano di Occidente, concluso nel 476
    dalla vittoria finale del barbaro Odoacre sull’ultimo imperatore
    romano, Romolo Augustolo.

    Non è solo una lunga agonia, perché alla guida della resistenza
    “romana” si succedono imperatori di grandi capacità militari e
    politiche (Massimino il Trace, eletto dai soldati durante il periodo
    dell’anarchia militare del III secolo; Diocleziano, ideatore della
    tetrarchia e spietato persecutore di cristiani; Costantino, che libera
    tutti i culti religiosi: grande conquista dei Cristiani, che, prima,
    arrestati, sottoposti a pene feroci, e persino suppliziati, ora
    possono invece godere della libertà di culto passando addirittura alla
    battaglia contro i loro nemici di ieri; Giuliano l’Apostata, che torna
    alla religione pagana dopo essere stato a lungo cristiano; a seguire i
    tre imperatori Valentiniano I, II, e III, impegnati in lunghe e dure
    battaglie con popolazioni germaniche , e infine Teodosio il Grande,
    imperatore cristiano, che fa addirittura del Cristianesimo la
    religione di Stato.

    Ma, come ci eravamo proposti, cerchiamo ora consonanze della nostra
    attualità con i grandi scrittori latini del II secolo d.C., che si
    sono impegnati con risultati contraddittori nella lotta contro una
    corruzione dilagante, di cui essi, consapevolmente o meno,
    costituirono quasi uno specchio ustorio (come Giovenale), una beffarda
    documentazione, o una gelida registrazione (Svetonio), o un
    agghiacciante testimonianza (Tacito).

    Tra di essi, Giovenale può essere considerato il maggior scrittore
    satirico di ogni tempo. Le sue satire mordevano la carne viva della
    società di quel periodo di transizione rappresentato dalla
    personalità, anch’essa venata di follia, crudeltà, libidine
    dell’imperatore Domiziano, pur negli indiscutibili meriti militari e
    sociali di questo secondo figlio dell’avvedutissimo amministratore
    che era stato l’imperatore Vespasiano.

    Giovenale, modesto avvocato di provincia (era nato ad Aquino),
    nella metropoli romana era costretto a vivere da cliens in mattutina
    attesa di poter salutare, insieme ad altri disperati, il patronus che
    ancora sbadigliando faceva distribuire loro la sportula contenente
    cibi grossolani o avanzi del giorno prima, ugualmente necessari alla
    sopravvivenza di quel gruppo di postulanti.
    Era allora l’indignazione che faceva bruciare il fegato di quel grande
    poeta, ma aveva il merito di ispirare i suoi versi: nisi natura facit
    indignatio versus. Ed era quella indignazione a creare incredibili
    scene di degrado morale che rappresentavano l’aspetto negativo di quel
    dovizioso e insieme miserevole inizio del “basso impero”, nel quale i
    disumani spettacoli circensi, il fanatismo sportivo delle folle e la
    pratica di una letteratura basata sulla violenza e sul sesso estremo
    (molto simile a quello della nostra attuale letteratura giovanile
    postcannibalica).

    Si aggiungeva a tale quadro il disordine urbano, la congestione del
    traffico, la cieca ostilità dei cittadini agli stranieri che
    disponevano i loro banchi pieni di mercanzie di scarto, prugne secche
    e fichi secchi, le matrone che gareggiavano fra loro nell’arte di un
    erotismo senza freni, e vecchi prostituti, come Nevolo, che
    lamentavano la propria laida professione insidiata da una concorrenza
    spietata e sempre meno pagata. Leggere Giovenale è come una discesa
    agli Inferi, senza alcun conforto o speranza.

    Altro aspetto della invivibilità di Roma, le lotte politiche e
    sociali e nel Senato e nel Foro, di cui Giovenale ci fornisce una
    documentazione spietata, dovendo però attingere il resoconto da
    precedenti scrittori di satire (per esempio, Lucilio):

    E adesso, da mattina a sera, festivo o feriale / che sia il giorno,
    popolo e senatori / si agitano tanto nel Foro e mai li trovi
    altrove; / tutti ad arte occupati nell’unico e solo mestiere:
    […]gareggiare in finzioni, mascherarsi da onesti, / preparare
    imboscate: tutti, insomma, nemici di tutti. (Satire, XXX, 4, vv.
    1126-29; 1131-32)

    Certo i toni dell’oratoria politica antica sembrano a volte più
    enfatici di quelli attuali, ma ciò è anche segno di una maggiore
    capacità moderna di occultamento della sostanza delle cose, tendente
    a personalizzare al massimo la polemica, evitando così di giungere al
    cuore dei grandi problemi dell’intera nazione. Questo è costume di una
    democrazia solo apparente, ove il potere, sempre in mano ai ceti del
    privilegio, per mezzo di prezzolati ed esperti “persuasori occulti”
    riesce ad addormentare e influenzare un popolo appagato da una certa
    possibilità di consumi e diventato schiavo d’una massiccia
    spettacolarizzazione della pubblicità, dello sport,
    dell’informazione,e persino della bagarre parlamentare.

    In questo contesto, accogliendo una distinzione sociale resa
    famosa dal nostro Umberto Eco, sarebbe giusto definire Giovenale, un
    “apocalittico”; al contrario, il suo amico, il grande epigrammista
    Marziale, potrebbe essere definito un “integrato”, il quale, pur con
    la spregiudicata aggressività di alcuni suoi epigrammi, si conquista
    da buon adulatore la simpatia degli imperatori Flavi, che in cambio
    gli concedono lo ius trium libero-rum permettendogli di usufruire del
    generoso sussidio previsto da questa onorificenza, anche se Marziale
    non aveva mai avuto figli.

    Persino sinistramente sorridente è invece lo spettacolo di un altro
    quadro, non più di infimo ordine, ma beffardamente borghese,
    rappresentato con cinismo di alta qualità stilistica, da Marziale che
    si avvale spesso di un espediente retorico di grande effetto, definito
    fulmen in clausola , il quale consiste nel rovesciamento di senso e
    di situazione nella conclusione di molti suoi epigrammi.

    Riproduciamone un paio ,scusandoci con il lettore per la spiritosa
    oscenità di una scena:

    Ti piace bere tutta la notte, / Gauro: te lo perdono, / è un vizio
    nobile, l’ebbe Catone. / E scrivi versi da offendere Apollo / e il
    coro delle Muse: / meriti lodi, questo era anche il vizio / di
    Cicerone./Sei goloso: ma è il vizio / di Apicio. Vomiti: / questo è il
    vizio di Antonio. / Ma dimmi, chi te l’ha dato / quel vizio di
    prenderlo in bocca? (Epigr., XI,104)

    Marziale non doveva amare Roma e quei tempi, tanto che in vecchiaia
    si ritirò nella sua nativa Bílbili sfruttando la generosità e
    l’ospitalità di una ricca vedova. Riscoprì allora la campagna come
    luogo di riposo e contatto diretto con i semplici valori contadini.

    Lo testimoniano questi versi dedicati al poeta Giovenale: Mentre tu
    forse, Giovenale, vaghi / inquieto per la chiassosa Suburra, / o sali
    alla collina di Diana / e la toga ti ventila il sudore/mentre corri
    ai palazzi dei potenti, / e ti stanca la ripida salita / del Celio, io
    me ne sto / tranquillo a Bílbili,[…] Godo sonni infiniti,
    profondissimi, / sino alle nove e più, / e mi rifaccio di tutte le
    veglie / che per trent’anni ho sopportato a Roma. (Epigr., XII, 18)

    Questa breve documentazione d’una quasi filiazione del mondo
    moderno da quello antico, si può concludere con una singolare
    citazione di Svetonio, segretario privato di Traiano e archivista del
    Palazzo imperiale, poi misteriosamente scomparso nel nulla.
    Tale citazione riguarda l’imperatore Domiziano ed è breve, ma quel
    ritratto d’insuperabile attualità ci riporta a personaggi e situazioni
    di cui sono piene le pagine di quasi tutti i giornali attuali, non
    solo italiani:

    Dava spesso banchetti lauti, ma brevi….Fu sommamente lussurioso, e
    chiamava “palestra del letto” il frequente concùbito, quasi una
    specie di esercizio ginnico; e si diceva che egli stesso depilasse le
    sue concubine e sguazzasse tra le più divulgate meretrici. Dopo aver
    insistentemente rifiutata la figlia vergine del fratello, che gli era
    stata offerta in matrimonio, essendo egli coniugato con Domizia, la
    sedusse poco dopo che era stata sposata a un altro.(Vita dei Cesari,
    Domiziano,21,22)

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